All’inizio di marzo 2020 è già chiaro che non sarà un raffreddore: è passato un mese dall’allestimento dell’ospedale straordinario al Celio con i voli dell’aeronautica che rimpatriavano italiani da Wuhan, Israele ha chiuso i voli dall’Italia già da qualche giorno, da almeno dieci giorni sono chiuse le scuole di alcune zone della Lombardia. In Cina si contano già ottantamila contagiati.
Eppure i vertici democratici nelle più grandi città ancora guidate dal Partito Democratico (Bologna e Milano) trasmettono chiari messaggi in cui sottovalutano la propagazione del rischio e del contagio. E siccome in queste città gestiscono il potere, utilizzano risorse pubbliche e la loro posizione per trasformare i messaggi in azioni pratiche, in iniziative concrete.
Il sindaco di Milano, dai suoi account social rilancia il video istituzionale che celebra l’operosità meneghina: “Milano, milioni di abitanti. Facciamo miracoli ogni giorno. Abbiamo ritmi impensabili ogni giorno. Portiamo a casa risultati importanti ogni giorno perché ogni giorno non abbiamo paura. Milano non si ferma”. Lo spot si conclude citando una serie di città tra cui Codogno e la scritta finale: “L’Italia non si ferma, #Milanononsiferma“.
Il messaggio, con vezzo italico, è rilanciato sullo stanco pettorale del primo cittadino a mezzo di t-shirt con hashtag in versione minimal-design.
Il leader del Partito Democratico, Nicola Zingaretti è fotografato mentre brinda ridendo durante un aperitivo milanese, sempre timbrato con cancelletto e lo slogan accelerazionista. Passa qualche giorno, il numero dei contagi a Milano subisce un’improvvisa impennata e raggiunge Lodi nel giro di qualche giorno.
Che il trend sia da imputare alla natura metropolitana della città, non v’è dubbio, tanto quanto la certezza che l’invito a relativizzare l’allarme sociale abbia avuto un ruolo: sarà compito dell’epidemiologia scoprire in che misura. Qualche giorno dopo Zingaretti ammetterà a mezzo stampa che è malato con il Covid-19 ma ribadisce che «ce la faremo».
A Bologna la musica non è poi così diversa. Non tanto, o non solo, perché l’amministrazione ricicla un vecchio video dell’agenzia para-comunale del turismo “Bologna Welcome” per ribadire l’hashtag che neanche Bologna si ferma. Ma soprattutto perché, come nella città lombarda, anche qui gli amministratori democratici organizzano happening collettivi. A Bologna l’assessore plenipotenziario alla cultura, il “poliziotto buono” Matteo Lepore, organizza un vero e proprio focolaio a scopo puramente dimostrativo (qualche maligno potrebbe dire elettorale). Lancia una campagna di tesseramento gratuito della Card Cultura, un abbonamento per sconti a teatri e librerie: nel giro di poche ore si formano file interminabili di fronte a cineteche, musei, ecc. L’assessore è ovviamente lì a favore di telecamere e folla, a bearsi di come i bolognesi sappiano «mettersi in fila non solo per i supermercati ma anche per la cultura». Qualcuno obietta che se si fosse trattato solo del fine di allargare la pletora di abbonati, sarebbe bastato rendere disponibile online la possibilità di tesserarsi. Invece no, il 2 marzo, Bologna non solo non si ferma, ma si accalca.
Passa appena una settimana e alle porte della città felsinea vengono schierati i soldati a blindare un comune di cintura per paura che l’andamento anomalo del contagio arrivi a bloccare uno dei nodi centrali del paese.
È fuor di dubbio che nessuno voglia accusare i vertici del Partito Democratico di tentata strage. In tutta sincerità non credo volessero in alcun modo far(si) del male. Ma nel commentare il goffo tentativo di inseguire il vento del libero mercato ovunque sospinga il suo afflato di morte, non è possibile esimersi dall’evidenziare la posizione da cui le autorità si sono mosse (male). Impossibile non notare che le rassicurazioni e, peggio, l’innesco di azioni e dispositivi che deliberatamente sottovalutavano la situazione, siano arrivate da chi ricopriva ruoli affatto neutrali. Non era, in altre parole, l’opinione trascurabile di qualcuno al bar; si è trattato dell’azione di una parte istituzionale che ha profittato della sua autorità e autorevolezza per infondere un messaggio, anche attraverso azioni concrete per mezzo di risorse collettive.
Con le dovute differenze, il caso non sembra troppo lontano da quell’occasione in cui la Commissione Grandi Rischi rassicurò gli aquilani, terrorizzati da settimane di scosse telluriche, che nulla sarebbe accaduto e che la situazione sarebbe tornata alla normalità.
Da settimane le scosse di terremoto spingevano la gente in strada, ma un gruppo di scienziati, esperti e autorità locali riuniti nella Commissione si presero la briga di commentare pubblicamente che non c’era niente da temere, tutto sarebbe andato bene, L’Aquila ce l’avrebbe fatta. Non si trattava, ovviamente, di un vezzo teorico, ma il messaggio diffuso alla popolazione rispondeva a precisi intenti in termini di ordine pubblico e gestione dell’esistente. Secondo quanto scriveva Antonello Ciccozzi, che in Parola di Scienza raccoglieva la testimonianza del suo ruolo di consulente antropologico all’interno del processo che vide condannata la Commissione, la performance comunicativa del fronte istituzionale aveva rassicurato la popolazione ben oltre le conoscenze a sua disposizione. In questo modo avevano approfittato dell’autorevolezza data dalla loro posizione per infondere un messaggio che, minimizzando la situazione, aveva esposto maggiormente la popolazione al rischio [1].
L’antropologo afferma che la performance si era costituita come “l’evento comunicativo di massima intensità persuasiva, il picco di una sequenza semiotica dal senso rassicurante in incubazione da mesi nello spazio culturale della città, che in quel momento contagia il sistema locale di percezione culturale del rischio”.
Effettivamente il meccanismo utilizzato dai ruoli apicali delle macchine amministrative metropolitane e sostenute da ampi settori del governo, non è dissimile dal ruolo interpretato dalla Commissione Grandi Rischi a L’Aquila. Gli slogan e la comunicazione che ha minimizzato il rischio, aumentando l’esposizione della popolazione, si è servito di consolidati dispositivi comunicativi (spot per il web, iniziative pubbliche, rilancio social, ecc.). E non ha ancora smesso di funzionare. Nei suoi fondamenti ontologici, ovvero nell’interpretazione di un esistente diviso tra l’esigenza di proteggersi e quella di mantenere gli standard di produzione e consumo, l’impianto ideologico persiste nel riprodurre meccanismi fallaci.
Solo qualche giorno fa l’assessore alla sicurezza di Bologna, il “poliziotto cattivo” Alberto Aitini, pubblicizzava sui suoi social network la lista dei locali ancora disposti alla consegna a domicilio. Proprio mentre in città i lavoratori delle piattaforme invitavano tutti gli utenti al boicottaggio per le mancate tutele nell’esposizione degli stessi al contagio. Dal suo account personale, ma per mezzo di una performance pubblica, un esponente di spicco dell’amministrazione comunale invitava apertamente la popolazione in quarantena a comportamenti di consumo che esponevano al rischio intere fasce di lavoratori.
Con l’utilizzo dello stesso apparato ideologico che continua a giustificare l’apertura degli impianti industriali durante un’emergenza sanitaria di dimensioni apocalittiche, il messaggio che relativizzava il rischio “a favore di mercato” veniva emanato mentre l’Emilia Romagna toccava inedite cifre di contagio e mortalità.
Così come a L’Aquila, è impossibile interpretare questi dispositivi comunicativi al netto della posizione istituzionale da cui vengono diffusi, e non considerando le conseguenze su alcuni gruppi sociali. Come scrive sempre Ciccozzi, “per quello che concerne la nostra specie, se si volesse negare l’influenza preponderante della comunicazione attuata da qualsiasi istituzione sociale sul comportamento degli individui e dei gruppi, si dovrebbe disconoscere la natura culturale dell’essere umano”.
Il dibattito italiano è azzerato, l’unità nazionale si è finalmente ritrovata intorno al decisionismo del Conte III e alla sua diretta streaming a reti unificate. Quello radicale è costretto tra poche ma sostanziali polarizzazioni: da un lato si invoca (inutilmente) Foucault denunciando la stretta repressiva e minimizzando il contagio, dall’altro si cantano i tempi migliori del welfare-state socialdemocratico che comunque non torneranno, e dal fondo alcune voci delirano su orizzonti utopici mentre a centinaia muoiono intubati.
In questo quadro restano esigui spazi per una critica politica ai dispositivi comunicativi, che in realtà sarebbe un pezzetto della più complessiva – e necessaria – opera di disvelamento dell’impianto ontologico del liberismo durante una catastrofe qualsiasi.
Post scriptum: l’articolo è stato chiuso prima di aver letto che il prof. Ciccozzi firmava considerazioni simili nel contributo I pericoli del rassicurazionismo ai tempi di una pandemia globale, pubblicato pochi giorni fa su Le Parole e le Cose. Fortuna vuole che dopo la sorpresa della simultaneità sia arrivato il sollievo della coerenza dei contenuti. (d.o.)
[1] La memoria depositata il 13 luglio 2010 dal sostituto procuratore Fabio Picuti alla Procura della Repubblica ufficializzava che le accuse agli esperti riguardavano l’aver rassicurato la popolazione comunicando agli abitanti dell’Aquila “informazioni imprecise, incomplete e contraddittorie sulla pericolosità dell’attività sismica, vanificando le attività di tutela della popolazione” e che “la evitabilità del danno non va intesa in relazione al mancato allarme ma in relazione alla inidonea valutazione del rischio e alla inidonea informazione”.