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Per farla finita con lo sviluppismo: ripensare l’approccio alla “questione interna”

per fondazione feltrinelli

Gli sguardi più attenti non avranno mancato di notare che la tematica delle aree interne sta riscuotendo un progressivo successo in alcune nicchie culturali, dall’accademia fino al dibattito pubblico. Da alcuni anni assistiamo – soprattutto, ma non solo, in Italia – a un crescente interesse che dal contesto urbano muove alle aree remote della penisola. Dettato da una molteplicità di domande, che per facilità, tra le tante, potremmo ridurre a fascinazione per l’autentico, fuga dalla modalità urbana, esperienza della natura, questo interesse incontra in maniera fortunata il cosiddetto vuoto delle aree interne. Le quali tra patrimonio abbandonato, dissesto idro-geologico, grandi terremoti e le altre questioni ambientali ripropongono puntualmente l’urgenza di un confronto con una parte consistente del Paese.

Questa relazione tra domanda e questioni irrisolte riaffiora nel dibattito con veemenza ciclica, come a seguire il trend storico che ha interessato la montagna: nei momenti di crisi, in maniera elastica, le aree in quota tornavano a ospitare attenzioni, vite vissute e traiettorie di sviluppo, per poi – nei periodi di crescita – tornare a svuotarsi. L’occasione pandemica si inserisce a pieno in questa dinamica: durante i mesi forzati nei costretti appartamenti di città, sono fiorite le posizioni da cui cantare le magnifiche sorti per ripartire dai “5000 borghi abbandonati” a patto di portarci “fibra ottica e interni adeguati a una vita smart”.
Anche in questo caso i problemi delle aree interne, dovuti a spopolamento, invecchiamento e (spesso dimenticato) impoverimento, riscuotono puntualmente risposte esogene al problema. Centri di ricerca, politiche pubbliche, investimenti privati, dipartimenti universitari che si rivolgono alla montagna muovono da ambiti urbani, e sono quindi alimentati da risorse e retoriche urbane. In altre parole, il rinnovato protagonismo delle aree interne va imputato a una larga pletora di soggetti, ma ahinoi non alle aree interne che, al contrario, in questo processo vengono frequentemente reificate.

Vincenza Pellegrino, nel documentario “Entroterra”, afferma che questo successo non si fonda tanto sulla riuscita dei modelli alternativi, quanto sulla crisi di quello urbano. In maniera proporzionale, all’aumentare della difficoltà del contesto noto, crescono le possibilità di immaginare sul vuoto. Una tabula rasa del tutto strumentale. Perché la realtà è densa delle eredità complesse di un passato che stenta a terminare, e che scivola via da almeno vent’anni goccia a goccia. Il patrimonio immobiliare abbandonato è in realtà paralizzato dal frazionamento della proprietà; le aziende agricole che chiudono come uno stillicidio lentissimo; il numero costante di giovani che se ne va, etc. stanno lì a dire che la partita non è affatto chiusa. Raccontare queste dinamiche come ormai inesorabili serve piuttosto a non vedere che le ragioni della sconfitta sono ancora adesso tutte lì. Piuttosto che confrontarsi con i sintomi, bisognerebbe curare le ragioni profonde: taglio del welfare territoriale, crescita del divario in termini di possibilità, accessibilità e sviluppo, standardizzazione dei protocolli e dell’organizzazione etc..

Non fare i conti con il presente, esito degli inesorabili rapporti di forza e delle asimmetrie di potere tra centro e periferia, significa contribuire a costruire i presupposti per processi decisionali top-down, sordi al sapere locale e distanti dal place-based caro alle scienze territorialiste. Uno spazio etereo che lascia ampi margini di rincorsa per le grandi progettualità, alimentate da retoriche che investono territori e comunità i quali non sembra aspettino altro che gli sia indicata la strada dello Sviluppo.Post-terremoto, post-pandemia, la soluzione è sempre più spesso un Patto, un Manifesto, un Piano, una sperimentazione, che mal si relaziona con le precedenti, con i livelli superiori della pianificazione e della governance, e che puntualmente trascura processi di soggettivazione e attivazione locali. In quest’ultima occasione post-lockdown, il tema è tornato a galla grazie a qualche accenno ai processi di “dispersione e ritrazione”, i borghi come strumento di decompressione etc. Elementi già visti nel post-sisma dell’Appennino Centrale (un piccolo laboratorio dove i fenomeni si danno accelerati), che non funzionano se non per piccole nicchie. E finiscono per lasciare praterie ai potentati locali, che si spendono per accaparrarsi piccole fette di torta e per alimentare un modello che parla un linguaggio nato vecchio, eternamente sviluppista: il partito del cemento e quell’idea anni ‘80 di rilancio.

Se vogliamo pensare a un rinnovato equilibrio uomo-ambiente a partire dalle aree interne non possiamo farlo senza riflettere su alcuni questioni aperte, tra cui l’accesso ai beni comuni. Di chi è la terra? E l’acqua? E i boschi? È ipotizzabile una nuova riforma agraria, la re-distribuzione delle terre demaniali e di grandi latifondi, la pubblicizzazione delle infrastrutture dei beni comuni (acquedotti, strade, elettricità, etc), l’inclusione degli istituti collettivi nella gestione pubblica e nella distribuzione delle risorse.

Col prerequisito di abbandonare un’idea di sviluppo che passa dalle iniezioni di risorse pubbliche per grandi investimenti infrastrutturali, sarebbe necessario riformulare e rendere organici gli strumenti di finanziamento pubblico oggi guidati dalle politiche di coesione, riorientandole sulla base dell’economia fondamentale. Evitare che gli strumenti spesso distanti dai casi concreti creino effetti distorti, favorendo concentrazioni di fondi, senza generare economie circolari e aprendo a veri e propri meccanismi criminogeni (si guardi ad esempio alla Politica Agricola Comunitaria e la questione fondi per zootecnia e la cosiddetta “mafia dei pascoli”). Sarebbe urgente svincolarli dai meccanismi dei bandi e ripensarli in termini di partecipazione e accesso democratico della catena distributiva delle risorse (chi decide? a quali livelli? per conto di chi?). Pensare che senza reddito universale di base, inteso come un sostegno economico diretto che incroci le condizioni personali con le caratteristiche ambientali, non avremo tanti contadini/custodi della terra, ma poche aziende agro-industriali o turistico-ricettive. Va riconosciuto il lavoro ecologico e quegli aspetti della natura che non partecipano direttamente al profitto: attività umane e animali che pure contribuiscono alla salvaguardia del mondo in cui viviamo. Senza scadere nelle misurazioni ecometriche, ma facendo riferimento ai paradigmi di una vita degna e nel pieno dei suoi godimenti. E partire dall’assunto che tutto questo va ripensato con le comunità locali, i saperi di chi c’è e differenziando le soluzioni sulla base del contesto locale. Per finalmente superare l’ostacolo del colonialismo interno e pensare allo sviluppo come strumento per migliorare la vita di tutti.