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Ricostruzioni post-sisma: “ci sono molti modi”
Una riflessione sulla pianificazione del dopo-terremoto a partire dall’esperienza dell’Appennino Centrale
Ne abbiamo parlato con Davide Olori, sociologo territorialista che alla ricerca scientifica ha affiancato i percorsi di mobilitazione e lotta. Ha collaborato con diversi centri di ricerca in sudamerica e italia sul tema delle disuguaglianze nella ricostruzione, nel 2016 ha contribuito a fondare il gruppo di ricerca autogestito Emidio di Treviri sul post-terremoto dell’Appennino Centrale, con cui hanno dato alle stampe “Sul Fronte del Sisma” (DeriveApprodi, 2018)
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Le conseguenze drammatiche del terremoto dell’Appennino Centrale sono ancora tutte lì. In forma meno drammatica la situazione non è risolta neanche a L’Aquila. È finalmente ora di una nuova legge?
Dopo ogni grande disastro, quando le acque si calmano, cominciano a muoversi le opinioni organizzate di chi ha visto da vicino la mole di risorse e tempo gettate in quello che spesso assomiglia a un fallimento collettivo. Che sul campo lascia scheletri, sperperi, abusi, comunità dissolte etc., tratti che compongono la sottotraccia delle mancate ricostruzioni in Italia. Se si fa appello alla riuscita del post-terremoto modenese, o a quanto successo in Friuli negli anni ‘70, lo si fa sempre in virtù delle diverse eccezionalità, a riconferma della più generale regola. Ed anche in quei casi vi furono meno luci che ombre.
Ritengo però che questo momento sia più proficuo di altri. Perchè siamo al terzo importante dopo-sisma in soli dieci anni, e per l’assoluta novità in termini di potenziali risorse economiche previste con il Recovery Fund. Potrebbe essere un’occasione storica per il “paese dei disastri”, ed è legittimo che ci sia un dibattito plurimo tra opinioni e proposte. È necessario però, dal mio punto di vista, che nessuna di queste si senta esente dal confronto con il portato storico delle rivendicazioni popolari e dei movimenti che negli anni hanno costruito il controcanto delle narrazioni ufficiali sul post-sisma. Nelle pratiche sono loro che hanno contribuito a costruire il substrato culturale per un dibattito sulla giustizia sociale dopo i disastri.
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Le ricostruzioni non vanno come dovrebbero, ma è un problema di risorse? Di organizzazione dello Stato? Tu dove individui il problema nell’attuale forma?
Esistono diversi ordini di problemi nel doposisma, i quali radicano principalmente nel tipo di contesto in cui si danno. Volendo semplificare enormemente però, possiamo rintracciare un’ossatura che li accomuna pur nelle loro differenze, focalizzandoci sulle geometrie di distribuzione del potere. Visioni più istituzionaliste, richiamano lo stesso problema categorizzandolo in altri modi: si parla di partecipazione, di giustizia procedurale, di livelli della governance, etc. ma a ben guardare discutono in modi diversi della quota di potere in capo ai diversi attori coinvolti.
Tralasciando qui le dimensioni micro di potere, ciò che però è dirimente ai fini di un ragionamento su come potrebbero andare diversamente le cose in una ricostruzione, è il livello politico. Ovvero chi ha in capo la gestione delle risorse e la capacità di organizzarle.
Guardando l’eccezione storica friulana, risulta evidente che il grosso di quella eccezionalità fu nella mobilitazione capace di incidere sui rapporti di forza tra organi locali e stato centrale (i cosiddetti meso-livelli). Attivazione resa possibile dalle condizioni storico-sociali che permisero la costituzione di un soggetto che dai campi terremotati seppe prendere voce, soggettivarsi, e ristabilire le geometrie di potere nella ricostruzione come raccontato da Igor Londero. Così non fu pochi anni dopo, quando gli stessi Zamberletti e Andreotti si trovarono a gestire il sisma irpino. La variabile della mobilitazione sociale, fu quindi un fattore capace di agire sugli equilibri organizzativi di post-eventi che pure avevano impattato lo stesso sistema politico-istituzionale.
Dal piano politico derivano gli altri dispositivi, che in fondo sono traduzioni tecniche: la burocrazia, il reperimento delle risorse etc. derivano direttamente dai rapporti di potere. L’accelerazione impressa alla ricostruzione del ponte di Genova nel 2020 ne è un chiaro paradigma.
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Solo dal conflitto nasce la possibilità di incidere sulle ricostruzioni del futuro? Non possono esserci altre forme di inclusione della comunità?
Non esattamente: credo che la dimensione dei rapporti di forza sia indispensabile per non cadere nel tranello di pensare il disastro come un piano neutro. Una lettura dove tutti sono uguali; non è così nelle conseguenze dirette, né nelle possibilità che si generano..
E chi si imbarcherà nell’elaborazione di una legge-quadro sulle ricostruzioni non potrà permettersi di trascurare le disuguaglianze di cui ci parla l’analisi del potere nel post-disastro. Sforzandosi di risolverle nei modi ritenuti legittimi. In questo senso è evidente che interrogarsi sulle geometrie decisionali corrisponda a focalizzarsi su quali siano i soggetti più deboli, meno rappresentati.
Ma quali sono le forme perché le comunità abbiano un ruolo cardine nella ricostruzione piuttosto che trovarsi a subirla? Escludiamo serenamente quello che pensa chi – come Bertolaso – ha teorizzato la verticalizzazione della Protezione Civile; restando solo al campo “progressista” le posizioni vanno da riformulazioni della governance (pensiamo alle proposte del Forum Disuguaglianze sui soggetti intercomunali) fino ai richiami alla partecipazione (si veda quella di ActionAid). In mezzo esistono alcune sfumature, ma è evidente che in entrambi i casi non siano ancora chiari né il chi (quale soggetto) né il come (quale forma) dovrebbe essere inclusa nei meccanismi di governo del dopo-evento.
Sul come, ovvero la forma, ritengo che le proposte di coordinamento tra i meso-livelli amministrativi esistenti siano insufficienti per la scarsa funzionalità dei livelli politici locali. È innegabile la progressiva perdita di efficacia dei consigli comunali, di incisività dei singoli cittadini rispetto al livello regionale, per non parlare delle soppresse province e del ridotto numero di parlamentari locali previsti dal recente referendum.
D’altra parte, chi avanza proposte sulla partecipazione lo fa ancora senza opportuna chiarezza. E’ comprensibile, perchè non si tratta di un tema facile. In molti ambiti della vita civile oggi i movimenti sociali si interrogano sull’inclusione delle forme di organizzazione autonoma dentro ai meccanismi decisionali. Nelle esperienze di autorganizzazione sociale (la rete dei beni comuni, ad esempio), nei processi produttivi (le reti contadine e quelle delle fabbriche recuperate), nell’abitare e nei quartieri (dalle gestione degli spazi pubblici fino alle forme residenziali innovative). Probabilmente non c’è una risposta sola.
Ma un altro punto su cui ritengo non ci sia il giusto livello di maturazione è il chi. Penso cioè che queste proposte non mettano sufficientemente a tema la questione della comunità in emergenza.
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Questa “comunità in emergenza” è secondo te il soggetto da includere? E in quali forme?
Dopo l’evento le comunità entrano in una fase nuova, quella dell’emergenza che poi le traghetta verso la ricostruzione: i gruppi sociali che la compongono sono eredi di quella comunità pre-disastro ma entrati in relazione con nuove spinte, elementi, gruppi ed esigenze. E’ necessario trovare strumenti per strutturare l’organizzazione dove possano trovare sede le esigenze e svilupparsi le potenzialità di chi vive e vivrà la ricostruzione.
A partire dall’esperienza dell’Appennino centrale ipotizzo che qualcosa da imparare possano suggerircelo le esperienze di autogoverno delle Comunanze e in genere degli enti esponenziali che gestivano e gestiscono i beni di collettivo godimento della montagna. Le comunanze, con regolamenti propri e propri meccanismi decisionali, garantivano inclusività e incisività alla comunità che si intestava l’impegno di restare nonostante le difficoltà, e avendo ben chiaro che il bene dei singoli nasceva solo dal perdurare di quello comune, perseguendo così obiettivi di equità e salvaguardia ambientale, come abbiamo raccontato nel documentario “Le Terre di Tutti”.
Congiuntamente alla tensione di dare una forma, bisogna riconoscere che le comunità durante l’emergenza cambiano. In questo giocano un ruolo fondamentale la solidarietà, il mutualismo e l’attivismo; una dinamica relazionale frutto delle moltissime variabili che intervengono sulla scena del dopo-terremoto. Ad oggi quella comunità ha tutta le responsabilità dei fallimenti e mai quella delle decisioni: la logica va ribaltata. A partire anche dal cosiddetto “prima”, rispetto al momento del disastro.
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Puoi spiegare meglio il rapporto tra queste fasi? Ora fai riferimento al prima, ma hai parlato di un soggetto in itinere.
Il disastro è un ciclo: questa è probabilmente la principale conclusione cui si devono 60 anni di studi sui disastri. Assumere questa prospettiva significa ammettere che non possiamo più affrontare i momenti post-disastro come emergenze: sono una caratteristica strutturale del paese, con cui le società che lo abitano hanno dovuto e devono fare i conti.
Ora urge una radicale democratizzazione della fase pre-evento, ovvero una riorganizzazione sociale del rischio, perché è il fondamento per una corretta gestione partecipata anche del post-disastro.
Penso al ruolo dei saperi esperti e di quelli tecnici, ormai enormemente avanzati sul fronte della capacità previsionale. Un progresso che però non è andato di pari passo con quello politico e con la volontà di condividere le decisioni includendo le expertise nei livelli decisionali. C’è chi arriva a teorizzare l’inclusione di tutto il processo all’interno di una unica authority, come fanno i legali di AlterEgo. Un ente capace di convogliare su di sé tutte le fasi del disastro, su cui – nonostante la proposta sia ancora acerba – intravedo potenzialità e rischi. Quello che però ritengo prioritario è riconoscere la necessità di socializzare le informazioni tecniche e il rischio, che dovrebbe diventare argomento di governo del territorio in una prospettiva condivisa. Ad oggi la Protezione Civile intende il concetto di partecipazione (così lo fa addirittura nelle sue sperimentazioni) come il mero informare la popolazione del Piano di Emergenza Comunale. È ridicolo: il rischio è una cosa seria, va affrontato in maniera democratica. “Ci sono immobili abbandonati in un borgo in zona sismica?” Il decisore pubblico deve avere gli strumenti a disposizione perché la conoscenza degli ingegneri della costruzione, insieme a quella dei geologi, spieghi agli attori del territorio che le case abbandonate sono più vulnerabili alle sollecitazioni sismiche: se ci sarà un terremoto (e i geologi sanno che ci sarà), (gli ingegneri sanno che) sarà peggio per le case adiacenti. Insieme ai cittadini e gli altri attori verranno affrontate le misure da adottare. E così per altri infiniti esempi.
Da una comunità cosciente nascono i presupposti per un soggetto che in itinere sia capace di prendere voce durante e dopo il disastro. E pensando alla necessità del momento emergenziale, alla presenza in loco delle comunità, dobbiamo fare lo sforzo di ripensare la gestione della cosiddetta emergenza. L’Italia ha competenze notevoli in materia di Protezione Civile; la sua funzionalità però è ipotecata dal suo stretto vincolo con il potere decisionale, in quanto diretta emanazione del Premier.
Nello svincolarsi da questa verticalità e guadagnare autonomia, la PP.CC. dovrebbe cogliere l’occasione per riformare la propria struttura: dalle pubblicità dei dati al ripensamento delle fasi di emergenza. L’intervento dopo una distruzione andrebbe rivisto nell’ottica di un prolungamento della capacità di far vivere in condizioni dignitose le comunità in loco, con interventi tattici (di urbanistica, architettura, etc.). Anche queste fasi andrebbero discusse preventivamente con gli attori da coinvolgere nei territori preventivamente, in un disegno organico dell’eventualità, con soluzioni place-based.
Contro le procedure standardizzate e la verticalizzazione dobbiamo pensare a un’emergenza strutturalmente connessa con la ricostruzione. Decentralizzare e circoscrivere l’emergenza significa anche costringere le strutture di Protezione Civile ad attingere alle risorse del territorio ed attivare nel breve-medio termine circuiti inclusivi dal punto di vista umano, relazionale e lavorativo.
Tutto questo è possibile solo con una forte volontà politica assumendo l’emergenza come momento iniziale della ricostruzione, da cui consegue una s-burocratizzazione, de-centralizzazione e maggiore orizzontalità decisionale degli aiuti.
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Abbiamo parlato dei problemi e di quali attori sono attivi nelle fasi pre-disastro e durante l’emergenza. Ma quali limiti vedi nei modelli di ricostruzione delle esperienze che hai conosciuto?
Nel terremoto dell’Appennino Centrale, dopo quattro anni, mancano all’appello ⅔ delle domande della ricostruzione leggera. E la colpa non sta tutta nella iperburocratizzata e farraginosa macchina dello Stato, che di certo ha le sue gravi responsabilità! Esiste un problema anche nella spinta dal basso che è arrivata sulla ricostruzione, che è correlata a quale “soggetto” fosse destinata la ricostruzione e al tipo di uso che avrebbe fatto del proprio immobile e dello spazio comune.
Aver finanziato al 100% la ricostruzione delle seconde case, ad esempio, ha significato consolidare uno zoccolo di proprietari stagionali che vedranno notevolmente aumentato il valore del loro patrimonio a “ricostruzione avvenuta”. Questo gruppo numericamente significativo nel cratere del centro-italia, ha agito con tipi diversi di advocacy: se da qualche parte era alla testa di una accelerazione partecipata e inclusiva, altrove era indifferente. Talvolta sta addirittura pregiudicando la re-inserzione di popolazione nuova, visto che nessuno è interessato a cedere macerie oggi, quando potrà vendere (chissà quando) immobili restaurati e tirati a lucido con risorse pubbliche.
Ma a una comunità, soprattutto in contesti rurali fragili, è l’uso ponderato e sostenibile del territorio che serve, non l’andirivieni stagionale dei flussi. Nonostante l’ingente impegno di risorse pubbliche (parliamo potenzialmente del più grosso cantiere d’Europa), il decisore ha abdicato alla pianificazione degli spazi urbano-rurali, come già aveva fatto con il paesaggio. L’esito più scontato è quello che definiscono “presepizzazione” degli abitati, case sicure ma vuote, o comunque svuotate dei loro abitanti organici allo spazio. Da riempire di usi nuovi, spesso effimeri.
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Credi che questo trend sia imputabile alla specificità del terremoto? Che altro opzioni sarebbero possibili per lo Stato?
No, l’incapacità statale di scoraggiare e incoraggiare modalità di stare nel territorio, non è solo un problema legato al terremoto. Se guardiamo alle riforme improvvisate durante la pandemia, ci accorgiamo che il più grande impegno economico del Governo per il rilancio economico si è concentrato sull’edilizia, pienamente iscritto dentro a un paradigma keynesiano con alcune decine di anni di ritardo. Ebbene, nonostante quel piano sia fondato su principi condivisibili, come il tentativo di rinnovare il patrimonio edilizio nazionale con Eco e Sisma Bonus, sono i dispositivi attuativi a tradire il fondamento ideologico che guida questa azione come pure quelle dell’ultimo terremoto. Ad essere premiato è puntualmente il blocco sociale piccolo-proprietario, classe di riferimento per la gran parte delle coalizioni governative. Con provvedimenti lineari il Governo sceglie di distribuire risorse “a pioggia” rinunciando al suo ruolo di pianificatore attraverso incentivi e disincentivi economici.
Come nel dopo-sisma dell’Appennino: è significativa l’esperienza di alcuni amministratori che poco dopo il sisma del 2016 hanno proposto allo Stato l’acquisto, a prezzo calmierato, delle macerie dei proprietari non interessati alla ricostruzione. Per edificare immobili ex-novo risparmiando sulle soluzioni d’emergenza (le cosiddette S.A.E., volate oltre i 2500 €/m2) e consumo di suolo. Consegnate ai terremotati in attesa del completamento delle loro abitazioni sarebbero poi tornate in mano ai Comuni che avrebbero finalmente avuto un minimo patrimonio di edilizia pubblica in montagna. La proposta non passò: l’opposizione difese il fondamento ideologico che lo Stato, in caso di disastro, tutela in primis la proprietà individuale.
Sono convinto che abbiamo casi e strumenti a sufficienza per riconoscere che i disastri colpiscono le comunità nella loro collettività e solo insieme le comunità possono uscirne.
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I problemi finirebbero una volta risolti quelli legati alla ricostruzione materiale?
Assolutamente no. Anche se dentro a una legge-quadro che tenga conto dei punti che abbiamo nominato, la riattivazione della comunità parte anche dall’impegno della stessa nella ricostruzione pubblica e privata (nei cantieri edili ma soprattutto nei suoi numerosissimi aspetti laterali). La centralità di questo processo è stato colto per esempio da “AutoRIcostruzione nel Cratere” che ha lottato per il riconoscimento di questa particolare modalità del costruire e dell’abitare tra le categorie beneficiarie dei contributi. Però è evidente che gli stessi problemi, e simili soluzioni, si pongano anche e soprattutto sul fronte dello “sviluppo” in aree fragili. Se guardiamo le cifre utilizzate per il post-terremoto dell’Appennino Centrale, noteremo che a fronte dei 4 miliardi di € per la ricostruzione pubblica, e i 2 per quella privata, ben 3 sono stati investiti sullo “sviluppo dei territori”.
Ad oggi il disegno e la progettazione di questi investimenti pubblici o va a rimpolpare le strategie già in essere pre-disastro, oppure si consolida in una progettazione autonoma elaborata in luoghi e tra interessi alieni ai contesti del disastro. Che spesso ricalca le storture della progettazione “per bandi” di tipo europea, con l’aggiunta di farlo con l’urgenza richiesta dall’emergenza e l’opacità della verticalizzazione.
Un meccanismo verticale, autoreferenziale ed emergenziale che, ad esempio nelle Marche, ha partorito quando è andata bene i noti topolini, quando non delle vere e proprie storture. Molto ne abbiamo scritto con le coalizioni sociali che hanno tentato di opporsi alla programmazione della Regione Marche e al suo Patto per la Ricostruzione e lo Sviluppo, nonché con i comitati che sono nati contro grandi opere specifiche come quello contro il QuakeLab Center nel piceno.
Il tema di quale sviluppo è centrale, soprattutto se pensiamo alla sismicità dell’Italia rurale fragile, e una legge-quadro deve assolutamente tenere conto della sua ri-democratizzazione. Anche in questo caso ai tavoli devono partecipare le comunità con funzioni e capacità decisionali. Certo, da sole non basterebbero, perché frequentemente le zone più socialmente vulnerabili sono anche quelle con meno strumenti,culturali e innovativi per affrontare processi di repentino cambiamento. Eppure attivando processi partecipati appositamente affiancati dalle expertise ormai riconosciute e seguendo i principi guida su ambiente ed equità, sono sufficientemente sicuro che si aprirebbero spiragli interessanti.
Dobbiamo lavorare affinché, soprattutto nelle zone rurali fragili, sviluppo economico e tutela del territorio vadano di pari passo. Su questo “auspicio” convergono moltissime opinioni, ma sui modi per perseguire l’obiettivo c’è un proliferare di posizioni. Ad esempio la proposta dello storico Augusto Ciuffetti, di ripensare un ordinamento territoriale montano, pone la questione normativa. Il Manifesto per una Nuova Centralità della Montagna curato dalla Società dei Territorialisti, rimette al centro la vocazione agro-silvo-pastorale. Altri si sono concentrati sulla questione del lavoro (manutenzione del territorio) o del reddito. Complice anche l’appeal della tematica aree interne degli ultimi anni e l’impennata dei lock-down, in molti hanno tentato elaborazioni proprie con risultati altalenanti.
Ma ciò che andrebbe condiviso è il punto di partenza, descritto molto bene dal geografo Varotto nel suo libro “Montagne di Mezzo”: è urgente «un patto post-fordista che rimetta al centro l’abitare rispetto al produrre, la società-ambiente rispetto alle leggi dell’economia, il territorio che ritorna Terra per affrontare la crisi climatica planetaria».
È necessario trovare gli strumenti decisionali perché ciò avvenga con maggiore partecipazione possibile. Nonostante le potenziali criticità che incontrerebbe il processo, sarebbero fortemente scongiurati gli interessi predatori dei soggetti organizzati e l’implementazione di modelli esogeni, finora apertamente in conflitto con la durabilità e sostenibilità della presenza umana nei territori fragili. Interessi tossici che restano quantitativamente più significativi di qualsiasi somma di errori di un potenziale percorso partecipato. E che pregiudicano, forse più del costruito, il futuro dei territori colpiti da disastri.